Qualcosa che lotta [2015]

    Marmo che abbandoni il mio cuore…

anzi no…

non sei tu…

io ti appoggio lento sul terreno 

dove adesso mi trovo…

come farei con un mio figlio…

ho visto l’astro implodere…

mi spezzavi… ma non più adesso…

e il sospiro della terra… e dell’ambiente tutto

che ora ti sorregge…

diventa il singhiozzo della bestemmia 

che non più mi riguarda…

io adesso sono il vento della quarta stagione

che scola per le strade…

sfiora le punte…

infrange il passato…

blocca le chiavi che girano…

rende vivo ciò era spento…

io vivo con la voglia di aprire un sorriso

che ho spesso voluto chiuso…

o… peggio… capovolto…

ma ora io vivo con la voglia di aprire un sorriso

e nel cuore la gioia lotta instancabile…

ribolle indomita e grida…

ride…

urla… 

e se piange

lo fa soltanto in suo nome…

o nel nome di quella dolce e quieta malinconia…

preziosa compagna di via.  

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Parole classiche [2015]

    Sono parole classiche,

eppure la rivalsa

ha un cuore ribollente

e ancora sanguinante.

    È il rumore assordante 

delle luci che sfuggono. 

    Devo lasciare scorrere 

ciò che è stato in catene

e ciò che ha sofferto. 

    Anche se questo vuol dire

strappare via il cancello nero

dalle mura dello spirito.

    In quel giardino appassito

dentro cui nulla scorre:

perpetuarsi dell’insicurezza;

sguardo inasprito 

di una vecchia conoscenza;

l’arrancare per l’avvento gelido e bollente

d’una nascita nuova.

    Il germoglio è sorto all’improvviso,

nel bel mezzo della desolazione,

e niente sarà più come prima. 

Rotti i capillari dell’anima

niente più pareva essere anelante a qualcosa

ma trascorsi cinque anni

fu il sorriso di uno strano animale

dolce come un bambino

a raccontarmi pensieri che conoscevo già.

Il nome [2015]

    C’è un nome che cerco spesso

e che ha il vizio di sfuggirmi;

a volte lo vedo scritto nel cielo,

con fiamma d’accendino e fumo,

con fiamma di crepuscolo.

    Latente.

    Trascorrono le notti intere

e io non le passo sveglio,

ma prima di dormire,

prima,

cerco ovunque di leggere quel nome

più bello della Vergine Maria,

di Buddha,

di Allah,

del Grande spirito,

di Giano

e di Apollo stesso.

    Certe volte credo di averlo in pugno,

di tenerlo forte,

saldo;

il mio sguardo si fa vitreo.

    Dico:

Hai visto?

Hai visto che ce l’ho fatta?

Hai visto?

    Ma dopo qualche giorno,

o qualche ora,

m’accorgo d’aver soltanto parlato a me stesso

e solo di me stesso.

    Ho ancora una specie di retrogusto, è vero.

    Il presentimento d’una soluzione,

il sapore del traguardo,

ma adesso è acre:

adesso è presunzione;

una nebulosa conclusione

d’una via che si snoda. 

    E le mie mani sono sempre le stesse.

Però questo nome che cerco,

il mio nome,

è vivo.

    Lo so.

    Devo coglierlo.

    Devo accettare 

veramente

la sua esistenza.

    Devo vivere. 

Erice infiammata [2015]

    Una corona di spine fiammeggianti:

la dea montagna danza immobile nel fuoco. 

    Una fila lucente percorre impraticabili 

vie

verticali;

la danza molecolare della fiamma. 

    La notte è già discesa. 

    Praticamente osservo,

spettatore dell’universo,

e colgo un attimo perpetuo:

mutabile desiderio di vita

che lambisce la morte.

    Il presagio divino che muove il mio sguardo

è ammonito da una parte di me

che luccica di luce elettrica.

    Ma un desiderio può voler dire vita:

la vita è un desiderio irrazionale,

così come l’amico che cerco con lo sguardo.

    I miei occhi bramano le fiamme

nella notte discesa

dal freddo d’un Giugno in ritardo.

    La puzza di bruciato permea i chilometri che fuggono;

l’aria è satura della paura di chi è rimasto.

    Io con lo sguardo cerco.

    Cerco solo per cercare.

    Guardo per risorgere,

dopo i demoni notturni,

e le fiamme assopite,

e le rocce e la notte,

nel mattino della coscienza. 

Consumammo le rose al mattino [2015]

     Abbiamo raccolto due rose

da quel giardino che dava oltre il muro;

erano fresche ed erano enormi.

    Tu mi saltasti allegra sulle spalle

e arrivasti dove 

da sola non potevi

e anch’io arrivai dove

da solo non potevo.

    Era la notte dolce

poiché in noi era la notte;

e allo stesso tempo

noi eravamo fuori,

ridendo e rubando le due rose

che nostre certamente non lo erano.

    L’avventatezza avemmo di fuggire

e ancora l’abbiamo.

    Non tenemmo per noi quelle due rose:

già nostre, cosa  farcene?

    Le donammo così, come un sorriso

lasciando tutto dietro a dileguarsi.

    Cercammo altre rose

dove diluirci e vivere.

    E già le consumammo

nel seguente mattino.

    E nel frattempo i petali 

continuano a staccarsi:

cadono lievi al vento 

sul tavolo in cui

poggiammo rose rubate una notte;

una di quelle notti

in cui la primavera 

invita l’estate

che lieta viene e ride.