All’amica materna Giovanna,
che ieri moriva
Uno dei consigli che l’Architetto mi dava sempre sulla pratica della pittura era quello di prendersi il giusto tempo per il proprio lavoro. Io, come pittore un po’ impulsivo, volevo immortalare sempre lo stato emotivo che percepivo e interpretarlo sulla base delle scelte cromatiche, delle forme. Volevo capirmi subito, questo era il modo che avevo trovato. Il consiglio dell’Architetto era però un consiglio da maestro: mi pare sia infatti nell’esercizio quotidiano, nella meditazione su un tratto, una forma, una tonalità che meglio si sveli l’interiorità dell’autore – e questo era infatti quello che lei intendeva. Così, da uno stato emotivo si passa a osservare qualcosa di più complesso: un sentimento; non un momento, ma un intero periodo, un’intera vita. È stato, come tanti dell’Architetto, un consiglio fondamentale, che tuttavia preso dalla vita e dalle sue cure non seppi mai seguire prima della sua morte.
Fu nel dolore senza coste che è il lutto, con le sue giornate nere, tetre – i suoi cimiteri – che quel consiglio dimenticato dimostrò come un seme di aver attecchito: me ne ricordai e fu dolce, in qualche modo.

Nel dicembre del 2021 cominciai quindi questo quadro, mosso da quel consiglio preziosissimo: come se la mia mano si muovesse sola, feci uno schizzo di una figura femminile: soltanto in un secondo momento mi sono accorto che stavo pensando a lei, a lei negli ultimi giorni di vita, quando la malattia la consumava. Da quel momento in poi e fino alla fine del lavoro mi ritagliai quotidianamente uno spazio per quel progetto e lo portai avanti, momento dopo momento.

Il quadro stava sul cavalletto. Di giorno in giorno acquisiva colori, forme, strati; ora aggiungevo pastelli a olio, a cera, acrilici, oli, tempere, matite, mozziconi. Mi concentravo su una parte, sviluppavo un dettaglio, ci fumavo davanti. Di giorno in giorno – ma fin dal primo giorno – il quadro prese una sua identità: un’identità cangiante, progressiva, con cui dialogare. Si percepiva la sua presenza nella stanza.

Il mese prima avevo visto morire mia madre dopo sette anni di malattia e quindi non facevo altro che ragionare su questo. Questa la mia ossessione in quel momento così difficile e nella tela ho cercato un dialogo sincero con me stesso, ma con una parte di me però lontana o remota, almeno in quel momento. Mi sentivo come se il bambino dentro fosse morto con la mamma.

Ciò che in questo quadro infatti osserva l’Osservatore è la morte della madre; nella fattispecie: la posizione, il ventre, le mani, oltre che un richiamo alla Venere di Botticelli, sono soprattutto le mani, il ventre e la posizione di mia madre sul suo letto di morte. Lei figura centrale, universale, una dea della fertilità che muore. La sua immagine è incompiuta: svanisce come il ricordo piano piano anche a chi osserva con attenzione. È un crepuscolo, alba o tramonto non saprei – l’arcobaleno una barriera -. Gli eroi se ne vanno e ci sentiamo un po’ più soli.

Sei un grande mi hai fatto emozionare davvero stupendo
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Quello dell’architetto-maestro è un consiglio che vale anche per la poesia e per altre forme d’arte
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Sì. Un consiglio che vale per ogni cosa che si ha a cuore in questo mondo. Uno dei consigli più preziosi che mi ha lasciato.
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